Il tempo che si impiega per recarsi a lavoro deve essere retribuito: lo dice la legge. Ecco i termini della sentenza.
La Corte Suprema di Cassazione ha emesso una sentenza di grande rilievo per il mondo del lavoro, ribadendo con fermezza il principio secondo cui il tempo di viaggio per motivi lavorativi deve essere considerato e retribuito come orario di lavoro effettivo. Questa decisione ha aggiornato e chiarito i confini dei diritti dei lavoratori che quotidianamente si spostano dalla sede aziendale ai luoghi di intervento o di lavoro esterni.
Il tempo di viaggio come orario di lavoro retribuito
Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda un gruppo di tecnici manutentori di una società per azioni, incaricati di svolgere interventi on field presso clienti esterni. Questi lavoratori erano abituati a iniziare e terminare la giornata utilizzando un automezzo aziendale per raggiungere le sedi dei clienti. Fino al 2013, il tempo necessario per gli spostamenti veniva integralmente conteggiato come orario di lavoro e quindi retribuito. Tuttavia, un successivo accordo sindacale aveva introdotto una franchigia di 30 minuti giornalieri, escludendo dalla retribuzione la parte di viaggio inferiore a tale soglia complessiva.
I lavoratori hanno contestato tale clausola, ritenendola in contrasto con il D.Lgs. 66/2003, che definisce come tempo di lavoro ogni periodo in cui il dipendente è a disposizione del datore sotto la sua direzione e controllo, compreso il tempo necessario per gli spostamenti tra le sedi aziendali e i luoghi di lavoro esterni. Dopo un iter giudiziario che ha coinvolto anche il tribunale di primo grado e la Corte d’Appello, la questione è stata risolta dalla Cassazione con la sentenza n. 16674 del 2024.

La Suprema Corte ha ribadito che il tempo preparatorio e di spostamento sotto il controllo diretto del datore di lavoro costituisce parte integrante dell’orario di lavoro. Di conseguenza, è nullo ogni accordo che preveda una franchigia temporale o qualsiasi limite che scarichi sul lavoratore parte del tempo necessario per raggiungere il luogo di lavoro esterno o per il rientro in sede.
I principi giurisprudenziali alla base della decisione
La sentenza richiama orientamenti giurisprudenziali già consolidati, come la pronuncia Cass. n. 37286/2021, sottolineando che:
- Il tempo in cui il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro e sotto la sua direzione, anche se impegnato in spostamenti, deve essere considerato orario di lavoro.
- Per i dipendenti che operano presso clienti esterni, l’intervallo temporale che va dall’arrivo in sede aziendale per il ritiro degli strumenti e le istruzioni fino al ritorno serale è da includere nella retribuzione.
- Gli accordi sindacali o aziendali che stabiliscano limiti o franchigie temporali a carico del lavoratore, in contrasto con la normativa vigente, sono da ritenersi nulli.
In particolare, la Corte ha evidenziato che la franchigia di 30 minuti introdotta unilateralmente dall’accordo era incompatibile con l’articolo 1, comma 2, lettera a) del D.Lgs. 66/2003, che tutela il diritto alla retribuzione per tutto il tempo in cui il lavoratore è a disposizione del datore.
Questa pronuncia rappresenta un importante monito per le imprese e un’ulteriore tutela per i lavoratori esterni, tecnici, montatori, addetti all’assistenza e altri professionisti che si spostano utilizzando veicoli aziendali o comunque seguendo precise direttive aziendali per raggiungere i clienti o i cantieri.
Il tempo di viaggio non è più considerato un intervallo di tempo “libero” o non produttivo, bensì una parte fondamentale della prestazione lavorativa da remunerare adeguatamente. Infatti, la guida o lo spostamento su indicazione del datore comporta una condizione di eterodirezione, ovvero il lavoratore non è libero, ma è impegnato in un’attività funzionale al lavoro.