Polonia e Ungheria tengono duro: Conseguente No al Recovery Found

La decisione di Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki sulla clausola dello stato di diritto sta frenando l’approvazione del recovery fund

Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki

Viktor Orbán e Mateusz Morawiecki

A seguito dell’incontro a Budapest tra i maggiori vertici Europei la condizione in cui versa il nostro paese rimane complessa. Polonia e Ungheria tengono duro e la decisione dei due leader Viktor Orbàn e Mateusz Morawiecki di porre il loro veto nel bilancio 2021-27 dell’unione Europea frena di conseguenza anche il Recovery Fund.

Il fondo di recupero Europeo, già precedentemente richiesto dall’Italia per far fronte al devastante impatto del Coronavirus, prevedeva  l’invio al nostro paese di 20 miliardi di euro.

La motivazione che spinge i due paesi a mantenere questa linea dura di pensiero è molto semplice: Il nuovo bilancio. Quest’ultimo, introdotto lo scorso 5 novembre dai negoziatori del Parlamento Europeo, prevede un procedimento grazie al quale la commissione potrà bloccare l’erogazione dei fondi Ue a quei Paesi che non rispettano lo Stato di Diritto.

I due leader firmano una dichiarazione comune

I due hanno, quindi, sottoscritto una dichiarazione collettiva affermando che lo stato di diritto è in questo modo declassato a “strumento politico”. A loro parere, il recente meccanismo introdotto necessita di un immediata modifica.

Nel dettaglio, il frutto del disaccordo riguarda il procedimento che permetterebbe la sospensione dei pagamenti, dal bilancio UE, a uno stato membro in caso di violazione dei diritti e delle libertà dell’uomo per definizione.

La loro controproposta prevede di proseguire con il bilancio ed il Recovery Fund senza la clausola riguardante lo stato di diritto. Ma questa richiesta ha portato con sé non poche critiche.

E’ noto difatti che tanto l’Ungheria quanto la Polonia siano state già precedentemente al centro di evidenti violazioni di tale diritto. Ciò avrebbe portato ulteriori critiche.

Orban

Eventi precedenti

Il primo caso riguardò l’Ungheria e risale al 2012. Orban propose una legge che consisteva nell’abbassamento dell’età pensionabile dei giudici da 70 a 62 anni. Secondo l’opposizione, il Leader voleva promuovere un turn-over nella giustizia allo scopo di inserire uomini a lui fidati.

Bruxelles intravedeva in questa proposta di legge una discriminazione tra giudici e altre categorie di lavoratori contraria alle norme Europee.

Nel secondo caso protagonista fu la Polonia  per la legge del 2018. Quest’ultima prevedeva la possibilità che i giudici potessero continuare ad esercitare  le proprie funzioni presso la Corte suprema (raggiunto un limite di età). Ciò, ottenendo semplicemente un’autorizzazione da parte del presidente della Repubblica.

Anche in tale caso la Commissione definì una chiara violazione del principio di inamovibilità e indipendenza dei magistrati. Entrambi i paesi furono condannati.

Ad ogni modo, a nulla è servito l’intervento della presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen. Con una lettera ha risposto all’ungherese Viktor Orban e al polacco Mateusz Morawiecki in merito alle obiezioni sollevate.

Von Der Leyen spiega che all’interno del nuovo bilancio il regolamento prevede la possibilità di incorrere in un freno di emergenza politico, qualora gli stati membri presi in considerazione, credessero di essere vittime di abuso di potere da parte della Commissione. Ma neanche questo dettaglio sembra poter mutare i due paesi che tutt’ora non cedono ad un accordo.

 
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